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Vendere un immobile ristrutturato con Superbonus espone al rischio di recuperi fiscali relativi al mancato versamento dell’Iva e dell’Irap, fino ad arrivare all’eventualità di vedersi contestata la spettanza stessa dell’agevolazione.

Ciò in quanto cedere un immobile dopo aver avuto accesso alla maxi-detrazione può essere visto dal Fisco come un’attività imprenditoriale, come tale assoggettata a una specifica tassazione e che esclude il contribuente dall’alveo dei possibili beneficiari del Superbonus.

Al centro del nodo interpretativo vi sono gli orientamenti espressi dall’Agenzia delle entrate in vari documenti di prassi e alcune sentenze della Cassazione che ritengono attività imprenditoriale l’aver svolto anche un singolo affare.

Nonostante ristrutturare un immobile avvalendosi del Superbonus per poi venderlo sia di per sé lecito, chi ha simili intenzioni si trova davanti a una serie di intoppi. Innanzitutto, dal 1° gennaio 2024 è in vigore una nuova disciplina che impone la tassazione della plusvalenza realizzata dalla compravendita in tutti i casi in cui l’immobile sia stato venduto prima che siano trascorsi 10 anni dalla fine dei lavori Superbonus (legge n. 213/2023, articolo 1, commi dal 64 al 67). Ma oltre alle difficoltà relative all’applicazione di tale prelievo fiscale, i potenziali venditori vanno incontro a rischi anche più gravosi.

Solitamente, infatti, chi vende un immobile ristrutturato con Superbonus può realizzare un rilevante guadagno economico, dato l’aumento di valore che l’immobile può aver subito post-lavori, e soprattutto considerato il fatto che la loro realizzazione (soprattutto nei casi di aliquota al 110%) comporta la detrazione dei costi.

Analizzando la posizione delle Entrate e la giurisprudenza di Cassazione, emerge che il punto critico risiede nel fatto che mettere in atto una pluralità di operazioni al fine di vendere un bene dall’elevato valore economico è in grado di rientrare nella nozione di attività d’impresa, così come regolata dall’articolo 55 del Tuir.

Ad esempio, la sentenza della Corte di Cassazione n. 36992/2022 ha statuito che “non può escludersi la qualità di imprenditore in colui il quale compia un unico affare, di non trascurabile rilevanza economica, a seguito dello svolgimento di un’attività che abbia richiesto una pluralità di operazioni”. Chiaramente, andrà verificato caso per caso se la singola vendita possa essere così considerata, ma in caso affermativo la conseguenza sarebbe la necessità di assoggettarla all’Iva e all’Irap.

Ma non solo, perché dato che la normativa Superbonus esclude esplicitamente dalla sua fruizione chi svolge attività d’impresa (dl 34/2020, al suo articolo 119, co. 9, lett. b), il rischio è anche quello di dover riversare al Fisco lo stesso Superbonus, per carenza del requisito soggettivo.

La citata sentenza di Cassazione non è l’unica pronuncia in tal senso, dato che anche nel 2021, con l’ordinanza n. 15931, la Corte rilevava come lo svolgimento di un singolo affare ben può comportare il confluire del profitto ottenuto nei redditi d’impresa. L’orientamento giurisprudenziale, dunque, appare abbastanza consolidato, anche vista la sua coerenza con la posizione del Fisco.

L’AdE, infatti, a partire dalla Risoluzione n. 204/2002, ha ritenuto imprenditoriale l’attività di chi ristruttura immobili al solo fine di rivenderli, piuttosto che destinare l’operazione al godimento personale o della famiglia, nel caso in cui l’attività sottostante sia abbastanza articolata. Considerato che avvalersi del Superbonus richiede l’attivazione di numerose operazioni rilevanti dal punto di vista economico, dal sottoscrivere un contratto d’appalto al gestire i vari adempimenti fiscali, ecco che il Fisco ben potrebbe rilevare un intento speculativo originario nel comportamento del contribuente.