Il Superbonus è stato ed è ancora tante cose diverse. Soprattutto quando la sua aliquota era fissata al 110% e lo sconto in fattura era ancora pienamente praticabile, questo non è stato solo una semplice agevolazione fiscale per la realizzazione di fondamentali interventi di efficientamento energetico e sismico, ma un vero e proprio modo di eseguirli (almeno in teoria) a costo zero, conservando anche un quid in più.

Ebbene, proprio a causa di questo meccanismo, il Superbonus ha rappresentato anche uno strumento di speculazione, con committenti che hanno programmato di realizzare “gratis” i lavori su immobili dal valore irrisorio, così da aumentarlo e procedere a venderli a un prezzo molto più alto.

Si tratta di un’operazione finanziaria lecita, di per sé, ma che ha chiamato il legislatore a intervenire per evitare che il Superbonus fosse utilizzato per ragioni diverse da quella per cui era principalmente pensato: sostenere il rinnovo del patrimonio edilizio residenziale esistente.

Per questo motivo, dal primo gennaio 2024 è in vigore una disciplina specifica per la tassazione delle compravendite che hanno ad oggetto immobili efficientati beneficiando del Superbonus, che applica un’imposta sostitutiva del 26% al valore della plusvalenza, vale a dire l’importo ricavato dalla differenza tra il prezzo cui l’immobile viene venduto e quello a cui era stato comprato o costruito, aumentato dei costi di realizzazione degli interventi che hanno dato accesso al Superbonus.

A introdurla è stata la Legge di Bilancio 2024 (L. n. 213/2023, art. 1, co. dal 64 al 66), ma il modo in cui è scritta fa sì che non ogni vendita di immobili ristrutturati col Superbonus ricada sotto la sua scure.

Come funziona la tassazione

Innanzitutto, la tassazione della plusvalenza è tanto più onerosa quanto meno il contribuente ha pagato di tasca propria per gli interventi agevolati. In particolare, infatti, se egli ha fruito del Superbonus interamente in forma di detrazione dalle imposte in dichiarazione dei redditi, anticipando cioè egli stesso il costo dei lavori, la plusvalenza viene ridotta di un importo pari al 100% di detto costo.

Se invece ha usufruito dello sconto in fattura o della cessione del credito, il costo dei lavori Superbonus 110% non viene affatto considerato e la plusvalenza è “piena”, a meno che la vendita non avvenga dopo 5 anni dal termine degli interventi, caso nel quale il 50% del costo va a diminuire la plusvalenza tassata.

Ma vi sono alcuni casi che non sottostanno espressamente alla tassazione al 26% della plusvalenza. Si tratta della cessione dell’immobile per successione o della vendita dell’abitazione principale, o anche del caso in cui chi vende il bene a titolo oneroso lo fa una volta trascorsi 10 anni dalla conclusione dei lavori.

Il caso del Sismabonus-acquisti

La formulazione della norma, però, permette di individuare altri casi che risultano esclusi da un simile aggravio fiscale, anche se non in maniera altrettanto esplicita.

Nel dettaglio, la Legge di Bilancio 2024 ha aggiunto all’art. 67, co. 1, del Tuir la lett. b-bis), che testualmente lega lo scattare della disciplina alle “plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili, in relazione ai quali il cedente o gli altri aventi diritto abbiano eseguito gli interventi agevolati (con Superbonus, ndr.).

Leggendo attentamente, si capisce come la tassazione non si attiva ogni qual volta ci sia di mezzo il Superbonus, ma ogni qual volta colui che vende l’immobile abbia eseguito egli stesso l’intervento agevolato, in qualità di committente. Ciò significa che nell’alveo della disciplina della plusvalenza non può ricadere il Sismabonus-acquisti, almeno in linea di principio.

Tale bonus permette, nel rispetto di alcune condizioni tecniche specifiche, di ottenere una detrazione, accordandola però non a chi ha commissionato i lavori, ma a chi ha acquistato un immobile sul quale sono stati effettuati i lavori dall’impresa esecutrice degli stessi e venditrice dell’immobile. Fino al 31 dicembre 2022, anche il Sismabonus-acquisti è stato maggiorato al 110% grazie al Superbonus, ma gli acquirenti di simili immobili, per quanto abbiano avuto accesso alla maxi-detrazione, possono rivendere l’immobile senza che la plusvalenza venga tassata al 26%, proprio perché, strettamente parlando, essi non hanno “eseguito gli interventi agevolati”.

La vendita con riserva di proprietà

Un altro caso in cui la tassazione della plusvalenza non scatta è stato evidenziato di recente dall’Agenzia delle Entrate, in particolare nella risposta a interpello 156 del 16 luglio scorso.

In particolare, come accennato, è la norma stessa ad escludere esplicitamente dalla tassazione le vendite avvenute dopo 10 anni dalla chiusura del cantiere Superbonus, ma lo schema contrattuale della vendita con riserva di proprietà permette di gestire questa tempistica con maggiore flessibilità.

Tale tipo di vendita, regolato dall’art. 1523 del cc., consente all’acquirente di entrare subito nella disponibilità dell’immobile, ma corrispondendo il prezzo di vendita “a rate”. Ebbene, ciò significa anche che prima dell’aver versato l’ultima rata, l’acquirente non può dirsi “proprietario”, perché l’effetto traslativo del diritto di proprietà si concretizza con il saldo totale del corrispettivo.

Proprio a causa di tale meccanismo giuridico, l’AdE ha specificato che se un contratto di compravendita con riserva di proprietà prevede che il pagamento dell’ultima rata avvenga dopo 10 anni dalla fine dei lavori Superbonus, la disciplina delle plusvalenze non si applica, anche se l’acquirente sta già godendo dell’immobile.