Superbonus, blocco cessione e sospensione lavori: è colpa dello Stato?
Una lettura tecnico-giuridica sulle responsabilità dello Stato Italiano nel blocco della cessione. Ma attenzione alle frodi e anche all’usura.
Le riflessioni contenute in questo articolo scaturiscono dal Convegno “Le conseguenze penali e tributarie del Superbonus: quali prospettive?”, organizzato dalla Camera degli avvocati Tributaristi della Romagna, tenutosi a Rimini lo scorso 31 marzo, con il patrocinio di varie associazioni professionali.
Il convegno ha visto la partecipazione del sottoscritto, in qualità di relatore, con il compito di rappresentare da un punto di vista applicativo, la complessità procedurale del Superbonus, che la categoria dei tecnici liberi professionisti si sono trovati a fronteggiare improvvisamente a partire dal mese di maggio 2020 e che ha stravolto i normali equilibri e le modalità di lavoro consolidate da decenni in ambito edilizio.
Erano inoltre presenti relatori esperti in diritto penale, tributario e condominiale.
I partecipanti al convegno erano in gran parte avvocati, la categoria professionale che, d’ora in avanti, entrerà in gioco nel “ginepraio” (così è stato definito da un docente di diritto penale che sedeva tra i relatori), creato dalle normative che hanno regolamentato (con continue modalità ad effetto retroattivo), il Superbonus.
Come ingegnere ho sempre ritenuto interessante il confronto tra il mondo delle professioni tecniche e quello delle professioni giuridiche, poiché fa emergere una visione delle cose molto originale. Inoltre aiuta a individuare le modalità con cui può essere affrontato un argomento come questo, caratterizzato da un livello di complessità – multidisciplinare – senza precedenti.
Il caso dell’edificio demolito “grazie” al Superbonus e mai ricostruito
Nel corso del convegno ha destato particolare interesse l’immagine di un edificio che, nonostante la correttezza della procedura adottata per la ristrutturazione (ottenimento delle autorizzazioni nei termini previsti e sottoscrizione di un regolare contratto di appalto) è stato demolito prima del decreto antifrodi ed oggi, a distanza di più due anni, non può essere ricostruito per effetto del blocco della cessione dei crediti che, di fatto, ha reso inattuabile l’opzione alternativa dello sconto in fattura che, nello specifico, era stata inizialmente prevista in contratto come forma di pagamento. La particolarità del caso derivava inoltre dal fatto che l’edificio in questione era regolarmente abitato dal proprietario-committente che ora, a causa della situazione venutasi a creare, si trova a vivere in affitto e a non avere più una casa.
La domanda emersa dal dibattito è stata la seguente: di chi è la “colpa” in una simile fattispecie, sicuramente non isolata? Del proprietario poco avveduto? Dei professionisti che hanno dato il via ai lavori? Dell’appaltatore inadempiente? O altro?
La risposta ovviamente non è semplice. E non è detto che, fin quando non si sarà formato il necessario quadro giurisprudenziale (ovvero tra almeno un quinquennio), esista una “vera” risposta a questa domanda. Nemmeno è detto che, sempre ammesso che esista una risposta, sia possibile individuare un unico responsabile.
Una cosa è certa: nel caso illustrato un cittadino ha creduto in una norma dello Stato e, oggi, si trova a non avere più una casa. È altrettanto certo che un’impresa, in modo analogo, si è impegnata in una operazione immobiliare firmando un contratto di appalto con il quale ha accettato di essere pagata mediante crediti fiscali che all’epoca della sottoscrizione sembravano avere un valore e che oggi, a seguito delle modifiche normative (retroattive) che ci sono state, hanno assunto il “valore” dei soldi del Monòpoli.
Purtroppo questi due sfortunati soggetti (il proprietario della palazzina che ora non c’è più) e l’impresa (che ha iniziato i lavori e non riesce a ricostruire l’immobile), si troveranno a scontrarsi in un Tribunale nonostante siano stati entrambi penalizzati da una norma dello Stato che è cambiata 33 volte in due anni.
Siamo davvero sicuri, come ha suggerito provocatoriamente un avvocato presente in sala, che proprietario e impresa siano avversari al punto da doversi fare causa tra loro e che, invece, non dovrebbero coalizzarsi per citare in giudizio lo Stato italiano?
Questa teoria giuridica, non isolata, è portata avanti da alcune associazioni di “esodati” del Superbonus.
Il caso limite del contribuente che si accorge di “strani” movimenti nel proprio cassetto fiscale
Un altro interessante punto scaturito dal dibattito che è seguito al convegno ha riguardato il caso – anche questo non raro – di quei contribuenti che, dopo aver firmato un contratto di appalto (a cui non è seguita l’esecuzione dei lavori), consultando il proprio cassetto fiscale (operazione che può fare chiunque cliccando nella sezione “Comunicazione opzioni per interventi edilizi e Superbonus”), si accorgono di avere dei crediti impropriamente caricati.
Il noto proverbio “male non fare paura non avere” in questo caso non dice il vero.
Il contribuente, se estraneo al processo di generazione di questi crediti inesistenti, infatti, non avrà altra scelta che rivolgersi a un legale il quale, dopo aver inviato una diffida all’impresa e aver formalizzato la rescissione del contratto d’appalto, gli consiglierà di rivolgersi alle autorità competenti, ovvero ai carabinieri o alla Guardia di Finanza per “tutelarsi”, denunciando la presunta “frode da bonus”.
Il problema è che, in un caso di questo tipo, verrà aperto d’ufficio un fascicolo per truffa (art. 640 del C.P.) a carico dell’ignaro contribuente, a seguito del quale la Procura competente avvierà delle accurate indagini che vedranno al centro proprio il malcapitato soggetto. Partendo da esso verranno poi cercati (e, si spera, trovati) i reali responsabili della frode, ma tutto ciò presuppone comunque un “giudizio” anche a carico di colui che ha sollevato il problema che, chiaramente, non può essere ritenuto innocente in assenza delle necessarie indagini.
Ciò, in termini pratici, significa doversi difendere e quindi spendere soldi (e tempo), nonché correndo tutti i rischi di un processo penale, che può “svelare” la verità solo dopo anni di trepidazione, soprattutto se la rete dei (veri) truffatori nella quale si è caduti è particolarmente ramificata.
L’acquisto di crediti fiscali “sotto soglia” può essere a rischio usura
Sappiamo bene che, oggi, il mercato dei crediti è congelato, ovvero è diventato praticamente impossibile effettuare la cessione alle banche. In questa palude, anche questa è cosa nota, girano soggetti con ampia capienza fiscale che si propongono per “acquistare”, se così si può dire, i crediti incagliati nei cassetti fiscali delle imprese. Il problema è che lo fanno a tassi estremamente bassi, ricavando dei profitti vertiginosi.
Nel corso del convegno è stato evidenziato che la “reale” misura del “tasso legale” di acquisto dei crediti fiscali maturati a seguito dell’effettuazione di lavori che beneficiano dei bonus è paragonabile alla media matematica delle percentuali offerte dalle banche che, nei pochi casi ancora in essere, varia dal 70 al 100%, a seconda del tipo di bonus e della durata del periodo di recupero (da 4 a 10 anni).
A tale proposito è emersa una domanda molto interessante: i soggetti di intermediazione finanziaria che applicano tassi di acquisto molto inferiori a quelli medi bancari, dell’ordine anche del 50-60%, in virtù del notevole scarto, possono essere incriminati per il reato di “usura”?
A parere degli esperti penalisti presenti tra i relatori, la risposta è affermativa, ovvero laddove lo scarto sia così importante è possibile che il soggetto che acquista i crediti “sotto soglia”, venga indagato per aver commesso il gravissimo reato di “usura”, previsto e punito dall’art. 644 c.p.