Qualche giorno fa ho ricevuto una contestazione da un mio vecchio cliente, relativa a un intervento edilizio risalente a ben 13 anni fa, in occasione del quale ho ricoperto il ruolo di direttore dei lavori. A detta del cliente i materiali impiegati nella ristrutturazione di alcune strutture non sarebbero stati quelli corretti, cosa di cui si è accorto solo adesso in seguito al crollo parziale di un manufatto prefabbricato. I danni così subiti vengono adesso addebitati a me, in quanto in ottemperanza ai miei doveri professionali, avrei dovuto impedire l’impiego di tali materiali da parte dell’impresa di costruzioni, cosa che invece non ho fatto. Tuttavia, come ho risposto al cliente, essendo passati più di 10 anni dalla chiusura del cantiere, ritengo che il suo diritto al risarcimento sia ormai prescritto.

Di tutta risposta, il suo avvocato mi ha detto che i 10 anni cominciano a decorrere da quando il difetto si manifesta.

L’Esperto risponde

Il tema della sicurezza del patrimonio edilizio e dei drammi causati dalla rovina totale o parziale dei manufatti, di tanto in tanto torna ad occupare le pagine di cronaca, rammentandoci quanto gli edifici siano vulnerabili e quanto altrettanto grandi sono le responsabilità dei professionisti che si occupano della loro manutenzione o costruzione.

A regolare il rapporto professionista-cliente è innanzitutto il dovere del primo di svolgere le proprie mansioni in maniera diligente, così come previsto dall’art. 1176 cc. Il professionista cioè deve mettere in campo le proprie specifiche competenze tecniche per adempiere esattamente ai doveri che il rapporto col cliente gli impone.

È chiaro che se un direttore dei lavori, come nel caso presentato dal gentile lettore, non fa quanto in suo potere per garantire che le opere siano realizzate a regola d’arte, egli viene meno a un suo dovere professionale specifico, esponendosi al rischio di causare danni ad egli addebitabili. La sua responsabilità, in tal senso, è a più riprese considerata dalla giurisprudenza di natura “contrattuale”, perché scaturisce dall’inesatta esecuzione di un rapporto obbligatorio. Dalla connotazione contrattuale della responsabilità del tecnico, però, discendono una serie di conseguenze giuridiche su cui la giurisprudenza è invece molto meno concorde. Innanzitutto, per la responsabilità contrattuale è stabilita una prescrizione decennale e secondo l’art. 2935 cc. questa inizia a decorrere “dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.

Ma sul significato di questa norma stringata la Cassazione ha formulato interpretazioni diverse, a volte ritenendo che la prescrizione vada calcolata dal momento in cui avviene il comportamento inadempiente del tecnico, a volte legandola invece al momento in cui si esteriorizza il vero e proprio danno. Il secondo orientamento, purtroppo, si sta facendo sempre più strada, e le sentenze in materia più recenti (l’ultima nel marzo del 2024) si conformano a tale principio, in base al quale, però, ogni professionista sarebbe gravato di una responsabilità enorme, e soprattutto senza “data di scadenza”.

L’orientamento minoritario

Come accennato, esistono varie pronunce di Cassazione che nel caso presentato dal gentile lettore offrono elementi a suo favore. In un primo momento, infatti, gli Ermellini hanno legato le generiche parole dell’art. 2935 cc. al momento in cui il professionista compie l’atto che non avrebbe dovuto compiere. Se un inadempimento c’è stato, dunque, ma più di 10 anni prima della sua contestazione, il professionista non ha più alcuna responsabilità a riguardo.

Tale ragionamento (espresso, tra le altre, nella sentenza n. 21495/2005, ma anche più di recente con la sentenza n. 21026/2014) poggia sul fatto che ad assumere valore a fini del calcolo della prescrizione è il momento in cui la posizione del cliente viene incisa negativamente.

In questo senso, il gentile lettore avrebbe inciso sul cliente nel momento in cui non ha notato l’inadeguatezza dei materiali utilizzati in cantiere, omettendo di contestarne l’impiego. Se la contestazione del proprio cliente dovesse arrivare nelle aule di giustizia, egli potrebbe dunque far valere una simile interpretazione, evidenziando che il suo inadempimento professionale risale ormai a 13 anni prima.

In sostanza, per tali sentenze a nulla importa che il cliente versasse in una condizione di ignoranza dell’inadempimento del tecnico, perché la possibilità legale di esercizio del proprio diritto cui si riferisce l’art. 2935 cc. è già in essere nel momento in cui il tecnico mette in atto il comportamento inadempiente.

Il cambio di passo

È sempre la Cassazione, però, ad aver emanato sentenze dal segno del tutto opposto, facendolo anche negli stessi anni, formando così un orientamento non consolidato che però si fa sempre più presente, mentre l’interpretazione che lega la prescrizione al momento dell’inadempimento è andata sparendo dai ragionamenti della Suprema Corte.

Già nel 2000, ad esempio, con la sentenza n. 5914, gli Ermellini hanno spiegato che i 10 anni di prescrizione devono essere calcolati non già dal giorno in cui avviene il comportamento del professionista, ma da quello in cui le sue conseguenze dannose diventano oggettivamente percepibili e conoscibili da parte del cliente. Ciò non significa che se il cliente è “distratto” o non ha ben vigilato sull’operato del proprio tecnico, allora quest’ultimo può essere ritenuto responsabile in eterno. Le sentenze che si esprimono in questi termini, infatti, sottolineano spesso come il punto non sia la condizione soggettiva del singolo, che magari non si è accorto dell’inadempimento per tempo, ma l’oggettiva impossibilità per quest’ultimo di percepire e riconoscere il danno, anche banalmente perché non si è ancora verificato.

Pronunce di questo tipo sono state emesse anche successivamente, e ve ne sono anche di molto recenti.

Ad esempio, con la sentenza n. 22250/2023 la Cassazione ha specificato che “ai fini della configurazione di un diritto al risarcimento del pregiudizio patito a seguito di inadempimento occorre che la fattispecie di responsabilità contrattuale si sia perfezionata con la presenza di un danno risarcibile”. L’inadempimento del tecnico, cioè, rappresenta certamente la fonte del danno, ma non va confuso con quest’ultimo, che fin quando non si verifica o non è comunque percepibile oggettivamente dall’esterno non fa sorgere il diritto al risarcimento e dunque, in base all’art. 2935, non fa scattare i termini di prescrizione.

Le conseguenze del nuovo orientamento

Tale interpretazione appare essere sempre più “accettata” dalla Cassazione, che solo lo scorso 14 marzo ha emesso un’ordinanza (la n. 6947/2024) basandosi proprio su tale principio. Nelle parole della Corte, cioè, “in tema di risarcimento del danno per responsabilità professionale, la prescrizione decorre dalla effettiva verificazione del danno risarcibile, quale conseguenza riconducibile causalmente al comportamento del professionista evocato in giudizio”.

Tornando al quesito sollevato dal lettore, dunque, non è dato sapere come potrebbe ragionare il giudice eventualmente chiamato a dirimere una simile controversia. Se questo dovesse conformarsi a quello che ormai si sta formando come l’orientamento prevalente, allora la pretesa del cliente potrebbe trovare accoglimento, dato che anche se il loro rapporto è chiuso da 13 anni, il crollo parziale del manufatto si è verificato solo adesso. Sempre che tale crollo, e i danni conseguenti, siano causalmente imputabili alla condotta del tecnico, elemento tutto da verificare.

In ogni caso, la rigida interpretazione in via di consolidamento appare essere non poco problematica, dato che di fatto rende i professionisti responsabili fino a un tempo pressoché indefinito.

Stando così le cose, assumono particolare importanza le polizze assicurative, che i tecnici devono controllare con attenzione, premurandosi di preferire quelle con garanzie più estese possibili (ultrattività decennale), per evitare di trovarsi a rispondere dopo anni di tasca propria di errori lontani nel tempo, e magari particolarmente onerosi.