Plafond Superbonus sovrastimato: come rimediare se il credito è stato ceduto?
Il beneficiario dovrà riversare all’Erario la somma in più, perché non spettante, ma non sempre sono dovute sanzioni e interessi. Vediamo quando.
Sono un professionista incaricato di gestire le pratiche relative alla ristrutturazione di un edificio plurifamiliare, che ha interessato sia le parti comuni che i singoli appartamenti. In particolare, i lavori recentemente conclusi sono stati agevolati con Superbonus, avendo comportato un miglioramento sismico. L’impresa che ha eseguito l’intervento ha concordato con il mio cliente (il committente) di praticare lo sconto in fattura, già eseguito.
Purtroppo, però, a causa della complessità dello stabile, ho commesso un errore in fase di determinazione dei massimali di spesa ascrivibili al Super-sismabonus, sovrastimando il plafond spendibile. Avendo già chiuso la pratica, cosa posso consigliare al mio cliente per rimediare, tutelandolo dall’eventualità di pagare sanzioni salate?
La risposta dell’esperto
Quando si tratta di bonus edilizi, uno degli step più delicati deriva dalla quantificazione del risparmio fiscale effettivamente conseguibile. Non è semplice, infatti, valutare gli interventi da eseguire e comprendere, alla luce della normativa, quali siano gli importi di spesa massimi agevolabili con le varie detrazioni. Il Sismabonus, ad esempio, anche in versione “super”, si applica fino al raggiungimento di un plafond pari a 96.000 euro per unità immobiliare, ma il calcolo (soprattutto negli edifici plurifamiliari come i condomìni) deve tenere in considerazione una serie di variabili: le pertinenze, ad esempio, si “sommano” al numero di unità da considerare per definire il massimale di spesa relativo alle parti comuni, ma se queste sono “staccate” dall’edificio, ecco che allora non vanno considerate.
Insomma, ogni caso presenta le sue peculiarità, e il lavoro del tecnico serve proprio a soppesarle con attenzione. Eppure, più sono le difficoltà (e in ambito di bonus edilizi non si contano!) più è probabile commettere qualche errore, anche in buona fede, come è accaduto al professionista che ha sollevato il quesito. Non c’è da disperare, però, perché anche a una “sovrastima” del bonus spettante può porsi rimedio.
Regolarizzare la propria posizione con il fisco, tuttavia, può essere più o meno dispendioso, perché se l’impresa ha già utilizzato il credito d’imposta entrato nel proprio cassetto fiscale tramite lo sconto in fattura, scomputandolo dalle proprie imposte, il committente dovrà versare oltre all’importo non spettante del bonus le relative sanzioni e gli interessi. Il sistema normativo non sanziona, invece, se vi sono le condizioni per “rettificare” la cessione intercorsa con l’impresa, ma serve la collaborazione di quest’ultima.
Il responsabile è il beneficiario
Quando si ottiene, per qualche motivo, una agevolazione fiscale maggiore rispetto a quella concessa dalla legge, si versa in un caso di “mancata sussistenza, anche parziale, dei requisiti che danno diritto alla detrazione”, e l’Agenzia delle Entrate ha titolo per procedere al recupero di quanto indebitamente fruito (art. 121, co. 5, DL 34/2020).
Al riversamento di questo “di più” deve procedere il primo beneficiario, anche se il credito collegato alla detrazione non è più nelle sue mani, perché ceduto. Infatti, il cessionario (vale a dire, nel caso in esame, l’impresa) risponde solidalmente con il cedente solo in caso di dolo o colpa grave (art. 121, co. 6).
Come minimo, dunque, nella situazione descritta dal gentile lettore, il committente dovrà restituire al Fisco la somma in più che non gli spettava, mal calcolata dal professionista.
Il rimedio se non c’è stata compensazione
Il citato co. 5 dell’art. 121, però, prevede anche che il recupero debba essere maggiorato di interessi e sanzioni. Tuttavia, le Entrate hanno chiarito in quali casi la maggiorazione non è dovuta: questa, infatti, è collegata all’aver arrecato un danno all’Erario, danno che non si verifica se il credito è stato solo ceduto, e non ancora compensato. In questo caso, cioè, non si verifica la violazione di “utilizzo indebito”, perché il danno erariale non si è concretizzato.
Tali ragionamenti sono stati fatti propri dall’Agenzia nella Circolare n. 33/2022, che spiega altresì come rimediare nel caso in cui, appunto, il cessionario non abbia ancora compensato il credito ricevuto. Innanzitutto, tempistiche permettendo, l’Agenzia aveva già chiarito che è possibile annullare o sostituire la comunicazione di opzione inviatale entro il 5° giorno del mese successivo a quello di invio (provvedimento n. 35873/2022). Se tale strada non è praticabile, la Circolare n. 33/2022 spiega che il beneficiario della detrazione “troppo alta” può chiedere di annullare la cessione avvenuta con l’impresa tramite sconto in fattura, ma questa deve essere d’accordo. Nel dettaglio, si dovrà inviare un’istanza congiunta di annullamento dell’accettazione del credito, motivata dal fatto che questa è stata viziata da errori “sostanziali”, com’è la non sussistenza anche solo parziale della detrazione per cui si è esercitata l’opzione.
Se tutto “fila liscio” perché l’impresa non ha ancora utilizzato il credito e acconsente ad annullare l’operazione, interessi e sanzioni non saranno dovuti. La Circolare n. 33/2022, però, sottolinea anche che tale strada non è percorribile se chi ha ricevuto il credito per la prima volta (l’impresa) lo ha già ceduto a terzi.
Cosa fare se l’impresa non collabora
Alla luce di quanto illustrato, è chiaro che la situazione peggiore possibile è che l’impresa abbia già compensato il credito. In questo caso, c’è poco da fare: il committente dovrà riversare l’indebito all’Erario a mezzo F24, con maggiorazione di sanzioni (riducibili per ravvedimento operoso ex art. 13, DLgs 472/1997) e interessi da calcolarsi a partire dall’indebita compensazione. Ma cosa accade, invece, se la compensazione non è avvenuta, e l’impresa non intende collaborare per l’invio dell’istanza di annullamento congiunta di cui sopra?
A tale domanda, ha risposto l’AdE con il recente interpello n. 440/2023. Nel caso trattato, il contribuente aveva inviato comunicazioni di cessione relative a importi risultati scorretti in sede di asseverazione della fine lavori, ma la banca a cui ha ceduto il credito si è rifiutata di annullarne l’accettazione. Dunque, si legge nell’interpello, l’Agenzia “non può intervenire per annullare le comunicazioni delle opzioni (o i relativi effetti), in base a una richiesta unilaterale, dopo che i crediti sono stati messi a disposizione del cessionario”, ma nonostante ciò “resta garantita la possibilità di riversare l’importo dell’indebita detrazione ceduta al fine di precostituire il credito a disposizione dell’utilizzo del cessionario”.
Tradotto in termini pratici, le Entrate ammettono che se l’impresa (in qualità di cessionario) non collabora, il beneficiario può comunque riversare il di più all’erario, in modo tale da “precostituire” una base per il credito (sovrastimato) che l’impresa poi andrà a compensare. In tal modo, cioè, si riesce a scongiurare il danno per l’erario. A prescindere dal consenso dell’impresa all’annullamento, dunque, il semplice riversamento dell’indebito (senza aggiunta di sanzioni e interessi) basta a regolarizzare il tutto, purché – chiariscono le Entrate nell’interpello – “sia possibile dare prova che il credito ceduto non è stato ancora compensato alla data del riversamento”.
Se questa è la situazione in cui si trova il cliente del gentile lettore, dunque, risulta fondamentale riuscire ad entrare in possesso della documentazione che attesti che l’impresa non ha compensato quanto ricevuto (ad esempio la copia del suo cassetto fiscale).